LE ORIGINI E LA STORIA DEI TARTUFI

I tartufi, schivi, quasi dispettosi almeno per ora e soprattutto nella loro versione bianca, sfuggono anche all'indagine circa l'epoca e i personaggi, mitici o reali della loro prima raccolta, dei loro primi impieghi. È vero che gli antichi greci coniarono il nome «ydnon» da cui deriva il termine idnologia ossia scienza dei tartufi e che i latini come Giovenale o Plinio citavano nei loro testi dei «tubera». Noi riteniamo però che gli antichi non si riferissero in genere ai tartufi odorosi di cui noi ci occupiamo. Il loro «tuber» era il tartufo giallo Terfezia leanis (Terfezia arenaria) o specie consimili. Si trattava di funghi ipogei che possono raggiungere anche il peso di tre o quattro etti dalla scorza o peridio liscio e viscido, screpolato, di colore giallastro, che vegetavano allora come oggi sugli arenili del sud d'Italia e delle isole, specialmente negli incolti sabbiosi della Sardegna dove vivono in simbiosi con alcuni eliantemi ed alcune cistacee e vengono raccolti immaturi quando la loro gleba (polpa) è ancora soda e bianca, tra marzo e aprile. Essi abbondavano allora forse più d'adesso in Africa Settentrionale e in Asia Occidentale; è comprensibile che fossero molto apprezzati (al punto di essere chiamati cibo degli dei) visto che a quei tempi erano del tutto sconosciuti i tuberi di origine americana, patate e topinambur, ai quali il tartufo giallo assomiglia per il suo sapore piuttosto neutro, lo scarso profumo e la vocazione a servire come contorno o come verdura condita alla stregua dei funghi epigei mangerecci. In merito sono significative le ricette dell'Apicius culinarius, il frammentario codice della cucina romana che li condisce con pepe, ligustico, corian dolo, ruta, garum, miele e olio oppure con altra formula altrettanto complessa. In ogni modo gli antichi latini chiamavano i loro tartufi «tuber terrae», un nome che sarebbe tornato come radice della denominazione scientifica moderna di molte specie. La formazione di quest'ultimo si fa risalire al XIII secolo e all'usanza di chiamare i tartufi «terrae tufolae» ossia gobbe della terra per il fatto che spesso, maturando e ingrossando, essi sollevano un po' il terreno. Il nome si contrae poi in «tartuffole» da cui discenderanno tartufo in italiano e truffe in francese. Passiamo dall'antichità a dati storici più recenti per parlare dei tartufi in senso stretto cioè di quelle fra le molte specie di funghi ipogei che hanno valore commerciale e caratteristiche organolettiche interessanti. La cucina classica assegna sicuramente un posto di particolare rilevanza ai tartufi del cui vasto impiego sono testimonianza i più quotati ricettari ottocenteschi e la grande considerazione in cui il tartufo è tenuto da gastronomi come Brillat-Savarin e da professionisti come Auguste Escoffier. Ma anche cronache di parecchio anteriori, specialmente relative ai potenti e ai ricchi, presso i quali il consumo delle cose buone precede spesso la classificazione scientifica, riferiscono circa i tartufi più pregiati sia bianchi sia neri, sia italiani sia francesi. Nel 1380, per esempio, alcuni documenti tratti dagli archivi dei Savoia parlano di doni di tartufi bianchi delle colline cuneesi, da parte dei fossanesi principi di Acaja a Bona di Borbone, dimostrando il pregio del prodotto già considerato un oggetto da regalistica d'alto livello e inaugurando una formula di ossequio diplomatico, non sempre disinteressato. Ce ne parlano ancora le relazioni degli ambasciatori piemontesi (Perrero, 1895) che reiterano richieste di tartufi bianchi da utilizzare come presenti per rendersi amici i potenti e i regnanti i quali gradivano e sollecitavano questa attenzione: fra costoro il Re Sole, Luigi XV, Maria Teresa d'Austria. L'abitudine non è solo piemontese e non è circoscritta al tartufo bianco: durante la Restaurazione il ministro francese Villèle ottiene la riconferma dalle Camere grazie a ben indirizzate prebende in tartufi perigordini, acquistati a spese del tesoro pubblico. In quell'occasione nasce dall'opposizione l'espressione "ministero tartufato" che conferma l'usanza mai tramontata di tartufare la politica.
Come abbiamo detto, il consumo dei tartufi ha preceduto la scienza, che non ha tenuto il passo con la ghiottoneria la quale accetta l'incognita in nome del piacere.
Per secoli si è dibattuto sulla natura del tartufo: animale, vegetale o addirittura minerale? Questo interrogativo non è neanche completo: le ipotesi sono state assai fantasiose e in questo senso divertenti. Per esempio Plutarco nel primo secolo sostiene che i tuberi sono generati dai lampi, dall'acqua e dalla terra. Questa è d'altronde già una semplificazione della precedente teoria formulata da Nicandro, circa tre secoli prima, secondo la quale i tartufi nascevano «dal limo della terra rarefatto dal calore centrale». Così si è proceduto per molti secoli fino alla sconcertante e deludente argomentazione dei Matthioli che nel 1500 dice che «la terra forma e arrotonda i tartufi per una virtù segreta»: punto e da capo. Nello stesso secolo esce a Padova quello che si considera il primo saggio di micologia ossia l'Opusculum de tuberibus di Alfonso Ciccarelli, medico di Bevagna, un trattatello sui tartufi di Spoleto. Nonostante l'autore interpreti ancora la genesi in maniera fantasiosa, stupiscono certe sue moderne intuizioni ecologiche. Per esempio il Ciccarelli mette in evidenza le relazioni dell'ambiente (terreno, esposizione, flora) con la crescita dei tartufi. Le cronache curiose amano riportare un poemetto didascalico del 1726 redatto in latino da Giovanni Bernardo Vigo che esalta il tartufo bianco e rientra nella vena dell'apprezzamento edonistico, senza offrire alcun progresso scientifico. Invece un passo avanti definitivo si compie nel 1729 con la pubblicazione di Nova plantarum genera di Pierantonio Micheli, il padre riconosciuto della scienza micologica. Nell'opera i tartufi vengono correttamente classificati come funghi e con essi trattati: esattamente vengono descritte due specie di tartufo nero, il Tuber melanosporum e il Tuber aestirum (scorzone). Nel 1780 esce a Milano il primo libro che parla del tartufo bianco d'Alba (Lettres sur les truffes du Piémont del conte De Borch, viaggiatore naturalista polacco): otto anni più tardi questa stupenda specie ottiene finalmente un nome e cognome ufficiali. Viene infatti descritta col nome di Tuber magnatum (ma l'autore voleva dire «magnatium» ossia dei magnati, dei personaggi, di quelli che possono) dal piemontese Vittorio Pico che curiosamente, d'accordo con i più insigni studiosi torinesi dell'epoca, continua a ritenere i funghi ipogei come appartenenti al regno animale. L'idnologia diventa scienza esatta nel 1831 in seguito alla pubblicazione di una monografia del giovane medico Carlo Vittadini nella quale vengono individuati, distinti ed illustrati, fra specie note e specie nuove, una cinquantina di funghi ipogei. Grazie alla scoperta delle micorrize da parte del Gibelli, risalente alla fine dell'800, gli studiosi possono attualmente dedicarsi allo studio della coltivazione delle tartufaie e del mantenimento ideale dei boschi tartufigeni. Il Gibelli, lombardo immigrato all'ateneo torinese mise infatti in chiaro la micorrizia ossia il fondamentale rapporto fra gli alberi o altri vegetali dotati di clorofilla e i funghi. Possiamo affermare che lo studio dei funghi ipogei sia stato un campo di battaglia degli studiosi italiani. Certamente i più grandi sono stati il già menzionato Vittadini, milanese e più recentemente Oreste Mattirolo, torinese, vissuto tra il 1856 e il 1947, che è stato ritenuto in quell'epoca il massimo specialista mondiale. I suoi lavori sono conservati all'orto botanico torinese e sono ancora oggi un punto di riferimento fondamentale. Ma il Mattirolo non è stato l'unico piemontese a primeggiare in questo particolare settore della micologia: prima e dopo di lui la regione è stata centro mondiale dello studio dei tartufi. Basti pensare al sullodato Gibelli che stimolò l'approfondimento degli studi sulla coltivazione dei tartufi da parte del Mattirolo ed anche del valUese Peyronel, che ha dato il nome al prestigioso gruppo micologico di Ceva, attualmente uno dei più conosciuti d'Europa. La lista non finisce qui: Arturo Ceruti ha avuto il compito e l'onore di realizzare l'aggiornamento sui funghi ipogei della monumentale Iconographia Mycologica dell'abate Bresadola; alcuni dei più moderni, attivi centri per lo studio della micorrizazione con funghi ipogei sono proprio in Piemonte e trovano nella Provincia Granda il più fertile ambiente per realizzare le loro esperienze. Citiamo il gruppo del C.N.R. che lavora presso l'Università di Torino, presieduto dalla prof. Fontana e comprendente fra gli altri il prof. Papa e la prof. Bonfante Fasolo; il gruppo delI'I.P.L.A. con i professori Palenzona e Fassi; poi un indipendente, studioso a briglia sciolta che è tuttavia all'avanguardia nelle esperienze di coltivazione dei tartufi, il dott. Giovannetti; infine, nell'ambito del gruppo micologico cebano, il Margaria.