TERRA SABINA - OUR LANDS
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LA ROMANIZZAZIONE DELLA SABINA
L'EREDITA' DEL PASSATO
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Gran parte della storia della Sabina in
età arcaica ruota intorno a Cures Sabíní,
ai miti ed alle leggende che hanno contornato i primi contatti
tra sabini e romani dei quali ovviamente non è sempre agevole stabilire
il fondamento reale e sui quali a lungo si sono intrecciate interpretazioni
storiografiche più o meno convincenti, che hanno teso a ridisegnare
il quadro dei rapporti tra i due popoli, dando pesi diversi alle notizie,
spesso confuse e aggrovigliate, tramandate dalle fonti antiche, già
anch'esse suddivise, per schematizzare, in filosabine o filoromane.
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GLI
OLIVETI
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La coltivazione dell'olivo e la produzione
di olio nel Lazio e nell'Etruria erano senz'altro presenti tra VII
e VI secolo a.C., come ha attestato il ritrovamento di noccioli di olive
in contesti archeologia sicuramente databili in questo periodo.
Quale era però l'uso e quale il ruolo
che l'oliva e l'olio avevano nelle società dell'Italia centrale,
sia nei modi di vita, sia nell'economia agraria?
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Le olive, grazie al loro alto contenuto di
grassi vegetali (15-25%) ed alla facilità della conservazione,
hanno costituito un elemento importante dell'alimentazione umana in particolare
nelle campagne e nelle regioni dove l'olivicoltura era ben radicata. I
modi di uso e di conservazione sono ben noti soltanto per l'età
imperiale, ma non dovevano essere molto dissimili anche per i periodi più
antichi almeno nelle forme meno sofisticate. Le
olive venivano servite anche nei pranzi più importanti all'inizio
ed alla fine. La conservazione più
diffusa era quella di tenerle in salamoia, ben coperte di liquido, fino
al momento dell'uso quando venivano scolate, snocciolate e tritate insieme
a vari aromi e mescolate a miele. Un
altro modo di conservazione era quello di scegliere le drupe migliori,
farle asciugare per un giorno, metterle poi in un fiscolo nuovo, schiacciarle
e lasciarle sotto pressa per una notte. Dopo questo trattamento venivano
sminuzzate, condite con sale e aromi e venivano poi conservate in un vaso,
ricoperte di olio, fino al momento di usarle.
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Molto diffuse erano anche le
conserve di olive nere che venivano preparate dopo una salagione durata
30-40 giorni. Sono ricordate molti altri tipi di conservazione delle olive,
più complicati ovviamente e perciò stesso meno diffusi. Ben
più complesso invece il ruolo svolto dall'olio. È
stato giustamente notato come fino al III secolo a.C. le lucerne siano
estremamente carenti e spesso del tutto assenti nei siti scavati. Questa
mancanza, più che con motivazioni culturali, va probabilmente spiegata
con la forte disponibilità di altri materiali per illuminazione
dal costo indubbiamente molto più contenuto dell'olio, come lo stesso
focolare, successivamente torce ricavate da schegge di legni resinosi,
o fasci di canne o di altri arbusti intrise di sostanze combustibili d'origine
minerale o vegetale, o grassi d'originale animale. Sistemi di illuminazione,
però, di non buona qualità che provocavano fumo, cattivi
odori e, spesso, incendi. Questo spinse alla individuazione
di sistemi più «puliti» ed «ecologici,
come l'uso delle lucerne alimentate con olio di oliva, diffusissime in
Grecia, o le candele, altamente diffuse invece in Etruria, segno probabilmente
di due diverse disponibilità di quantità di olio da destinare
ad un uso tutto sommato secondario rispetto al principale c restava sempre
quello alimentare, non tanto come condimento, ma come consumo diretto delle
olive.
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Nel
Lazio ed in Etruria però la situazione si modificò rapidamente
tra la seconda metà dei lli secolo a.C. e la prima metà del
li con una diffusione massiccia di lucerne ad olio di produzione locale,
indizio di una disponibilità sul mercato di forti quantitativi di
olio, come conseguenza di una forte espansione delle zone coltivate ad
oliveto. Per quanto riguarda la Sabina, la coltura
dell'olivo, radicata nell'area almeno fin dal VI secolo a.C.,
negli scavi di Cures Sabíni, in contesti risalenti a questo periodo,
sono stati trovati noccioli d'oliva - si era man mano sviluppata, tanto
che le tecniche colturali adottate sul finire dell'età repubblicana
non si discostavano molto da quelle adottate fino a qualche decennio fa.
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Alla coltura dell'olivo fanno
diffusi riferimenti Catone, che dettava precise norme sull'organizzazione
generale di un oliveto, sulla manodopera occorrente, sulla riproduzione
per innesti, per margotte, per talee, sulla potatura, sulla raccolta, sui
frantoi, sui torchi, sulle celle olearie, sulla produzione dell'olio verde,
od olio di novembre, ritenuto uno dei migliori, sulle norme che regolavano
i contratti per la raccolta delle olive, per la molitura, per la vendita
del frutto pendente, e Varrone, che, originario della zona di Rieti, da
un punto di vista climatico non adatta ad una coltivazione intensiva dell'olivo,
ha dato informazioni meno dettagliate di quelle catoniane. Tra
le qualità delle olive, citate da Catone, Varrone, Columella, Plinio
il Vecchio, Rutilio Palladio e Macrobio, sono da ricordare la Sergia, che
i Sabini chiamavano, secondo Plinio, Regia. Questa varietà
maturava abbastanza tardi, in febbraio-marzo, resisteva al gelo e dava
un'ottima resa in olio.
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Il
sistema di estrazione dell'olio praticato in età romana non
differiva molto da quello utilizzato fino alla metà del secolo scorso.
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La frangitura delle olive
avveniva o per mezzo del trapetum, modello
descritto da Catone, che però in Sabina, a quanto sembra non è
mai stato rinvenuto, o con la più semplice
mola olearia, formata da una parte fissa, il bacino o sottomola,
sulla quale girava, imperniata su di un paio orizzontale che si inseriva
in uno verticale alloggiato nel bacino e azionata da animali, la mola.Una
volta frante le drupe, la pasta ricavata veniva introdotta all'interno
dei fiscoli e premuta con il torchio (torcular).
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I tipi di torchio erano diversi;
i più diffusi erano però i torchi a leva, a loro volta
di due tipi, a verricello e a vite. In Sabina gli esemplari ritrovati attestano
la particolare diffusione del torchio a vite, con la vite ancorata al suolo,
che, se è vero che veniva utilizzato maggiormente per la torchiatura
delle vinacce, era anche utilizzato per la premitura della pasta ricavata
dalla frangitura delle olive. Peraltro in Sabina scavi sistematici non
sono mai stati compiuti né sono stati fatti inventari dei materiali
ritrovati, perciò soltanto dall'esame delle parti emerse per mezzo
delle lavorazioni moderne non è sempre agevole individuare se ci
si trovi in presenza di un impianto per la lavorazione del vino o dell'olivo,
in una regione poi dove entrambe le coltivazioni erano fortemente diffuse.
Il torchio a vite ad ancoraggio fisso era
costituito da due pali verticali (arbores) infissi in due incassi di norma
scavati in un unico blocco di pietra locale. Tra i due pali
veniva inserito l'albero del torchio (prelum), collegato poi alla vite
senza fine, che, insieme ad altri congegni, provocava l'abbassamento dell'orbis,
un disco in legno, che premeva sui fiscoli, che erano dei cesti intrecciati
con giunchi od altre fibre vegetali, nei quali veniva inserita volta a
volta la quantità di pasta da spremere. La superficie di premitura
era costituita dall'ara, che poteva essere sia in pietra locale che in
mattoncini disposti a spina di pesce (opus spicatum), sul bordo della quale
vi era normalmente un solo canale che serviva a convogliare per mezzo di
un becco l'olio misto all'acqua di vegetazione in vari contenitori, dove
si operava la separazione dei due liquidi per successive decantazioni.
La spremitura della pasta veniva ripetuta tre volte.
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L'olio così prodotto veniva
poi conservato nella cella olearia dove veniva suddiviso per qualità,
la prima definita oleí flos,
la seconda oleum sequens e la terza
oleum cíbarium , e cambiato
più volte per liberarlo della morchia. La differenza di qualità
è ben marcata nell'editto di Diocleziano che agli inizi del IV secolo
d.C. calmierava i prezzi dei generi di prima necessità: l'olio di
prima qualità costava 40 denari il sestario (circa l 0,547), 24
quello di seconda e 12 soltanto quello di terza.
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A Roma in età imperiale
è stato stimato un consumo di circa 321.000 anfore di olio l'anno,
equivalenti grosso modo a 22.480 tonnellate, valutazione compiuta in base
ai ritrovamento sul monte Testaccio, corrispondenti ad un
consumo annuo pro capite di circa 22,5 chilogrammi. Una quantità
abbastanza elevata che si spiega anche con il fatto che l'olio non serviva
soltanto per l'alimentazione, ma anche per l'illuminazione, le pratiche
igieniche, la medicina, la cosmesi, la meccanica 94. Altre valutazioni
conducono a cifre grosso modo simili. Non sono note per l'età romana
notizie sulla produzione e sulle rese dell'olio in Sabina, peraltro soggette
a molte variabili ed a forti oscillazioni e quindi difficilmente quantificabili.
In via di approssimazione possono essere presi come modello i dati del
secolo scorso, proprio in considerazione della forte cristallizzazione,
nel lungo periodo, delle tecniche colturali ed estrattive, innovate in
Sabina soltanto sullo scorcio dell'Ottocento. Il ciclo produttivo era triennale,
un anno nullo, uno medio, uno di carica, con una produzione media nel triennio
di un boccale l'anno per albero, poco più di 2 litri, e con un consumo
pro capite stimato di poco superiore a 4 boccali, che corrispondono a poco
più di 8 litri d'olio.
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L'olivicoltura
in Sabina acquistò notevole importanza a partire dal i secolo
d.C., come attestava Columella, ben noto scrittore di cose agricole, precisando
che l'olivo non amava né i luoghi depressi né quelli aspri,
ma i dolci declivi che potevano essere osservati in Sabina o nella Betica,
provincia della Spagna meridionale, una delle zone maggiormente note per
la forte produzione che si era affermata precocemente a Roma, ponendo quindi
sullo stesso piano i due paesaggi dell'olivo.
La Sabina era in età romana la regione-limite verso settentrione
per la coltivazione dell'olivo. Plinio il Giovane ricordava
infatti in una delle sue lettere, scritte a cavaliere tra I e II secolo
d.C., come nella sua villa in Tuscis che era situata alle falde degli Appennini,
nell'attuale Umbria nei pressi di Città di Castello in località
Colle Plinio, data la rigidezza del clima era sconsigliato piantare olivi.
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L'approvvigionamento dell'olio
a Roma era assicurato dal mercato libero, dai possedimenti fiscali
o da canoni impositivi. Le importazioni maggiori venivano dalla Betica,
regione del sud della Spagna, che iniziò ad inviare olio a Roma
in età augustea. Una quantità che crebbe progressivamente
fino a cessare poi bruscamente tra il III e IV secolo d.C.. Altrettanto
rilevante fu il contributo dato dagli oliveti nordafricani, in particolare
di quelli situati nell'attuale Tunisia, che divenne a partire dal III secolo
d.C,. la maggiore esportatrice di olio nel Mediterraneo, soppiantando il
ruolo svolto dalla Betica e dalla Tripolitania. Inizialmente il trasporto
era gestito da negotíatores oleari privati, ma con Settimo Severo
il trasporto venne assunto direttamente dall'imperatore e dai suoi figli.
Tra le qualità dell'olio sabino, quella
terapeutica è attestata fin dal i secolo d.C. da Scribonio Largo.
Un
grande estimatore dell'olio sabino fu nel li secolo d.C. Galeno, uno
dei più famosi medici dell'antichità e medico alla corte
di Marco Aurelio, che lo considerava il migliore degli oli allora conosciuti,
consigliandolo come base essenziale di molti preparati farmaceutici, Una
fama che si mantenne a lungo inalterata, tanto che nel Vi secolo d.C. Alessandro
di Tralles nel suo trattato di terapeutica, che ebbe un notevole influsso
sull'insegnamento medico medievale, ricordava ancora le ricette di Galeno
che avevano come base l'olio d'oliva della Sabina. La sempre maggiore discontinuità
delle importazioni transmarine dovette causare penuria di olio sul mercato
romano, dato che nei basso impero sono ricordate numerose distribuzioni
gratuite di lardo alla plebe ed una sempre più diffusa utilizzazione
del grasso animale per alimentare le lampade.
Questo fatto dovette stimolare indubbiamente la produzione delle aree
più prossime a Roma, anche se la ripresa in questo caso era ben
più lenta per le caratteristiche del ciclo produttivo della pianta.
Va anche considerato però che il paesaggio dell'olivo può
resistere più degli altri al degrado per le caratteristiche di longevità
della pianta, che può vegetare e produrre per diversi secoli. Si
veda ad esempio proprio nell'area curense il famoso olivo di Canneto, intorno
al quale sono fiorite molte leggende, ma che indubbiamente non può
risalire fino in età romana.
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Una coltivazione pertanto che
non era certamente venuta meno, ma si era probabilmente specializzata,
dato che nel ]V secolo d.C. alcune qualità godevano di una rinomanza
tale da valicare i confini peninsulari come l'oliva Pícena ricordata
da Ausonio, che probabilmente si riferiva alla regione e quindi anche alla
Sabina. Un fattore non secondario del sostegno alla produzione dell'olivo
fu l'affermarsi del cristianesimo, una religione sviluppatasi nel Mediterraneo
e che dalle colture tipiche del Mediterraneo, vite e olivo, traeva allegorie
profonde per diffondere i propri messaggi, i propri misteri. La
vite e l'olivo, come i loro prodotti, olio e vino, con il propagarsi della
religione cristiana, vennero ad assumere nuovi valori simbolici, liturgici,
sacrali e culturali. Un altro aspetto che non va sottovalutato
è il consumo non marginale di olio che dallo scorcio del IV secolo
veniva fatto per illuminare gli interni delle basiliche paleocristiane,
ben noto in particolare a Roma, o per altre ragioni sacre. I lumi che venivano
utilizzati erano di tre diverse categorie: le coronae, lampade ad olio,
in genere d'argento, più raramente d'oro, con applicazioni in forma
di delfini fissate all'orlo che servivano a sorreggere un anello nel quale
erano infilate le fiale di vetro contenenti l'olio. I canthara cereostata,
talvolta d'argento, più spesso d'ottone o di bronzo, che sorreggevano
ceri. I fara canthara, raramente di argento o di ottone, quasi sempre di
bronzo, anch'essi lumi pendenti, probabilmente ad olio, ma di fattura meno
complessa. Per Esemplificare nella basilica costantiniana,
S. Pietro, ardevano nel IV secolo 7 coronae con 170 delfini e più
di 110 fara d'argento.
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L'ABBAZIA
DI FARFA
LE ORIGINI
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Le origini dell'abbazia di Farfa sono ovviamente
avvolte nel mistero. Lo stesso Gregorio da Catino, il monaco farfense
che a cavaliere tra XI e XII secolo riordinò e raccolse i documenti
monastici, dopo aver a lungo esposto varie ipotesi sulle possibili origine
dell'abbazia e sul periodo nel quale sarebbe stata fondata, confessava
candidamente che in effetti non si sapeva nulla di preciso e di chiaro
sulle origini e sulle successive vicende del monastero, se non quello che
si poteva leggere nel liber Constructionis, la principale fonte farfense
per i primi secoli di vita dell'abbazia, ovvro che dopo la morte del fondatore
il beatus vir sanctissimus Lorenzo la zona era stata devastata dai longobardi
e lo stesso sito di Farfa era stato ridotto in desolazione e abbandonato
per molti anni, fino alla ricostruzione operata da S. Tommaso da Moriana.
Purtroppo questa parte della Construcio monasterii
Farfensis, l'unica vera fonte sulle origini dell'abbazia, non è
giunta fino a noi, ma il sunto fornito da Gregorio è abbastanza
illuminante.
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Peraltro questa fonte doveva
essere ben nota anche fuori dell'ambito strettamente farfense, se si
considera il fatto che S. Pier Damiani faceva chiaramente riferimento ad
una antica tradizione (testis est antiqua traditio, quae sanctitatis eius
insignia celebrat) secondo la quale un vescovo Sabinensis, da identificare
senza molti dubbi con Lorenzo, lasciata la dignità sacerdotale,
aveva fondato il monastero di Farfa. Due fatti debbono essere notati. Il
primo che tanto Gregorio, quanto Pier Damiani, parlando di questa fonte,
non accennano minimamente ad una origine orientale di Lorenzo. Il secondo
riguarda l'accenno a Lorenzo vescovo di Sabina.
A rigor di termini la diocesi di Sabina per eccellenza era stata quella
di Cures, ma ormai nell'alto medioevo la denominazione era stata
assunta da quella foronovana. Difficile quindi dire in che modo la Constructio
utilizzasse il termine.
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La
precoce scomparsa della diocesi curense fa pensare più credibile
che si ritenesse che Lorenzo era stato vescovo foronovano e non curense.
Peraltro anche la prima fonte che parla del vescovo Lorenzo come fondatore
di Farfa, una lettera di Giovanni VII del 705, nulla aggiunge, anzi sulla
genuinità di questa lettera vanno avanzate molte riserve. A completare
il quadro, un'altra fonte molto sospetta, sicuramente interpolata, ma utilizzabile
con molte cautele, il così detto manoscritto di Cerchiara, trascritto
dallo Sperandio sullo scorcio del 1700, colloca un vescovo Lorenzo sul
soglio foronovano alla metà del VI secolo. Pur con ampi margini
di incertezza, la prima fondazione di Farfa dovrebbe essere avvenuta quindi
intorno al 560-570 ad opera del vescovo foronovano Lorenzo, con un modello
che per certi aspetti, l'insediamento cenobitico ed eremitico, ricalca
quello del Vivarium di Cassiodoro.
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Una conferma molto precisa a
questa ipotesi è giunta dalle indagini archeologiche condotte
recentemente a Farfa, che hanno consentito il ritrovamento di frammenti
di un piatto di ceramica sigillata chiara D, databile al VI secolo, decorata
a stampo con al centro una croce gemmata tra due cantari sormontata da
tre volatili ed una moneta dell'imperatore Giustino II (565-578), attestando
la probabile presenza di una comunità cristiana sul sito farfense.
Le scarne notizie sulla fondazione di Farfa furono successivamente innervate
e commiste con la leggenda dei XII Siri, sviluppatasi in area umbra a partire
dal VII-VIII secolo, ed i due Lorenzi confusi. Va
peraltro detto che anche per Farfa la fondazione finì per risolversi
nella coppia vescovo/monaco, due modi diversi di vita in una
stessa realtà spirituale e sociale, lasciando irrisolti molti interrogativi.
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Se dunque la ricostruzione della
prima fondazione di Farfa è corretta, anche per il monastero,
come per la diocesi, la formazione del ducato di Spoleto sullo scorcio
del Vi secolo segnò una tappa decisamente negativa. Si è
discusso vivacemente in passato sul ruolo avuto dai longobardi nella scomparsa
di molte diocesi in Italia con accenti non sempre storiograficamente giustificati.
Per quanto riguarda la Sabina in particolare,
va notato come si produsse uno spopolamento indubbiamente più accentuato
nell'area di Cures, rispetto alle altre aree della Sabina tiberina.
La causa principale di questa degenerazione, oltre ai nessi con una crisi
demografica e con una depressione economica generalizzate, fu l'occupazione
longobarda che aveva profondamente modificato l'assetto territoriale della
Sabina tiberina, decretando la definitiva disgregazione dell'antico ordinamento
municipale romano. Non era più Roma, ma
Rieti, un importante gastaldato fortemente autonomo del ducato di Spoleto,
dove si erano insediati i gruppi dirigenti longobardi, il nuovo baricentro
territoriale della regione, con i confini del ducato che si estesero fino
al Tevere, tranciando i collegamenti del ducato romano con il nord lungo
la sponda sinistra del fiume. Fattore non secondario dunque del definitivo
collasso economico-sociale dell'area curense fu probabilmente anche il
divenir zona di frontiera tra longobardi e bizantini, con la forte espansione
dei beni fiscali, la desertificazione dell'area confinaria, secondo la
prassi consuetudinaria germanica, e lo stanziamento di una «fara»
per il controllo militare delle valli del Tevere, del Farfa e del Corese,
anche se questo insediamento dovette avere una vita effimera cessate le
ragioni di carattere militare che l'avevano promosso. Tutto ciò
sembra inquadrarsi in una ricorrente coincidenza tra le aree di crisi più
marcata delle città antiche e le frontiere longobardo-bizantine,
in particolare nelle zone dove la frizione politico-militare divampò
maggiormente.
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Per tutto il VII secolo la
carenza di notizie e di informazioni obbliga ad un cauto silenzio. Neppure
le indagini archeologiche di superficie sono state in grado di individuare
con certezza siti abitati nei primi secoli dell'alto medioevo,
questo fatto dà conto dell'enorme decadimento della cultura materiale
tanto labile da non lasciare molte tracce di sé. Possono essere
quindi fatte soltanto delle considerazioni di ordine generale. La recente
analisi compiuta da Paolo Delogu 161 ha mostrato con molta incisività
come da un punto di vista ideologico l'editto di Rotari, emanato dal re
longobardo nel 643, non rappresentasse esclusivamente il quadro di riferimento
normativo per le popolazioni germaniche, come spesso si è ritenuto,
sovrapposto alla cultura classica dei vinti romani, ma al contrario riflettesse
una situazione d'ordine più generale, uno specchio reale non distorto
della società italiana formata tanto dalle popolazioni di origine
germanica, valutabili quantitativamente intorno al 10%, ovviamente con
un forte tasso di imprecisione, quanto da quelle di origine romana che
si riconoscevano ormai in norme legislative fortemente semplificate e germanizzate
ad attestare la profonda degenerazione avvenuta nel VI e nel VII secolo.
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Per quanto riguarda quindi la
nostra area in particolare sfuggono tutti i dettagli. Si può
tentare di riempire questo vuoto soltanto con congetture. In linea generale
è stata avanzata l'ipotesi che l'organizzazione territoriale d'età
romana non si sia del tutto frantumata al momento dello stanziamento longobardo,
ma abbia comunque continuato a sopravvivere per un certo periodo di tempo
prima di modificarsi in profondità.
Una ipotesi sostanzialmente accettabile, ma che forse va meglio articolata.
Nell'area curense, la più densamente popolata in età romana,
la persistenza delle strutture agrarie sembra meno evidente rispetto all'alta
valle del Tevere dove la diocesi di Forum Novum, dopo una breve parentesi
coincidente con i momenti più acuti della frizione longobardo-bizantina,
riprese rapidamente la sue funzioni, pur se inserita nel nuovo contesto
politico-istituzionale, ma restando un importante punto di riferimento
e di rappresentazione dei ceti sociali romani in età longobarda.
La diocesi di Cures scomparve invece definitivamente
sullo scorcio del Vi secolo e l'aggregazione a quella di Nomentum decretata
da papa Gregorio Magno nel gennaio del 593 non ebbe effetti pratici. Per
il VII secolo nulla sappiamo, ma dagli inizi dell'VIII le fonti farfensi
ci forniscono preziosi elementi per ricostruire con un minimo di attendibilità
gli accadimenti precedenti. La diocesi di Rieti possedeva nell'area curense
fino al 781 numerosi beni fondiari, in parte permutati con Farfa agli inizi
dell'VIII secolo, e la chiesa di S. Giacinto, che sorgeva su di una collina
non distante dalla confluenza dell'attuale strada degli Inglesi con la
Farense. Questi beni provenivano probabilmente
sia del patrimonio della diocesi di Cures sia da successive donazioni,
mentre per la diocesi nomentana non sono menzionati nell'area né
beni fondiari né chiese o cappelle dipendenti ad attestare con chiarezza
come i confini delle strutture religiose si siano adeguati ai confini politici.
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