VAL D'AOSTA
Regione
a statuto speciale dal 1945, è divenuta, con i trafori del Monte
Bianco e del Gran San Bernardo, una delle vie autostradali obbligate per
gli scambi fra l’Italia e l’Europa occidentale. Dominata da un grappolo
di vette fra le più alte del Vecchio Continente, raddolcita dai
pregiati vigneti che fanno da spalliera al fondovalle ricco di frutteti,
punteggiata da una carovana di antichi castelli a volte severi a volte
leggiadri, la Valle d’Aosta (la Vallee per i locali) rappresenta
una vasta oasi montana e silvestre, dove negli ultimi decenni i servizi
e il turismo (62,5 per cento del reddito regionale) hanno in buona parte
soppiantato quello che una volta costituiva la preponderante - e magra
- fonte di sopravvivenza di queste popolazioni: le miniere di Cogne, gli
altiforni di Aosta, l’antracite di La Thuile, i giacimenti cupriferi di
Brosso. È stato il moderno sviluppo delle vie di comunicazione interne
ed esterne che ha consentito il benefico mutamento di rotta dell’economia
della Valle, la quale, circondata com’è da Piemonte, Francia e Svizzera,
e rigidamente inscatolata nelle Alpi nord-occidentali, un tempo trovava
oggettive difficoltà di decollo. La Valle d’Aosta non solo è
la più piccola regione d’Italia, ma anche quella meno densamente
popolata.
Le feste. Lo sapevate che anche le
mucche sono grintose combattenti? Dopo varie selezioni locali, la terza
domenica d’aprile ha luogo a Croix Noire (Aosta) la finale delle Fetes
des bergers, battaglie tra poderose mucche. E ancora, restando sempre in
argomento, il titolo della "Regina del Colle" viene assegnato
al Piccolo San Bernardo la domenica mattina dopo Ferragosto. Molto
importante e singolare la Fiera di Sant’Orso (Aosta) a gennaio e ad agosto,
una manifestazione che richiama turisti e curiosi.
Artigianato. A Hone, statuette in pietra ollare; in Valgrisenche,
"draps" (coperte, tovaglie, tappeti, scialli, borse di tessuto
in tinte vivaci lavorate al telaio); ad Arpuilles, Avise, Ayas, Donnas,
Porossan, Valtournenche, Saint-Pierre e SaintChristophe, mobili, sculture,
"sabot" (zoccoli), grolle, tutto in legno locale.
Vacanza
alternativa. L’Eliski, importato dal Canada: scendere sulla
neve vergine da 3.500 metri dopo un viaggio in elicottero.
Proverbio: L’avar
l’è semper pover (L’avaro è sempre povero).
Si mangia. Cucina povera (o
meglio, realistica) la valdostana. Poco in comune col resto d’Italia: ignora
l’olio ma anche la pasta. I primi piatti sono costituiti da zuppe robuste
(la cognense, la valpellinense) a base di pane, brodo, lardo, cavoli. Sempre
più rare le specialità vere, come la mocetta, coscia di camoscio
trattata come un prosciutto e servita fra gli antipasti. I vincoli sulla
selvaggina limitano, evidentemente, le cosce di camoscio (o di stambecco)
e non e raro, oggi, trovare mocette di capra. Se opportunamente trattate,
solo un esperto può identificarle, e raramente gli sciatori sono
esperti di mocetta. Fra le specialità sono da ricordare la "valdostana",
una costoletta di vitello farcita di fontina, il formaggio-simbolo della
Valle. La valdostana ha superato i confini regionali e la si trova un po’
ovunque. Ma, attenzione, spesso tradita, col formaggio appoggiato sopra,
non "dentro", ed è tutt’altra cosa. Il
piatto più vero resta, a nostro avviso, la carbonade. Testimonia
dell’arte d’arrangiarsi in una zona aspra e difficile, dove è necessario
(era necessario) pensare alla conservazione dei cibi in termini di mesi,
non di giorni. E infatti il pane di farine miste era tradizione farlo una,
massimo due volte l’anno. La carbonade e un umido di carne molto
scuro (di qui il nome). La carne di manzo, salata e conservata, si taglia
a striscioline e si cuoce lungamente in vino rosso, con cipolla tritata.
Si serve accompagnata da una fumante polenta. Anche per la carbonade bisogna
registrare i tradimenti perpetrati già con la valdostana: la versione
moderna, con carne non conservata e bagnata di vino bianco, è solo
una pallida, in tutti i sensi, copia dell’originale. E
per chiudere, naturalmente, un caffè valdostano, infuocato di grappa,
nella famosa "grolla".
Si beve. Si può tranquillamente parlare di "vini
estremi" per le condizioni climatiche. La Valle d’Aosta è la
più piccola regione italiana, e molto
limitata, estesa su circa 900 ettari, è la coltivazione dei vigneti.
Sul fondo valle, appena è possibile, altrimenti lungo gli scoscesi
fianchi dei monti, su terrazzamenti con pendenze proibitive, su su fino
agli oltre mille metri di Morgex e La Salle. Lì
si produce il vino più "alto" d’Europa: un bianco paglierino
con riflessi verdini, molto secco, delicato, acidulo. È
anche molto gradevole una specie di sfida alla natura, se si pensa al forte
innevamento e al clima rigido. D’altra parte, è sempre d’attualità
un vecchio adagio secondo cui il vino buono esce da piante che hanno sofferto.
Avaro in rese quantitative ma generoso su quelle qualitative, il suolo
valdostrano fornisce vini "francesizzanti" (quelli a base di
Gamay) e molto profumati generalmente da bere giovani anche se i rossi
di Chambave e Donnas consentono un certo invecchiamento. Da rilevare che,
in una fascia di coltivazione lungo il corso della Dora Baltea lunga un’ottantina
di chilometri sono rappresentati bianchi, rossi, rosati e anche vini da
dessert.