CAMPANIA
E'
la regione più densamente popolata. Quattrocentotrenta chilometri
di costa segnano il bordo sudoccidentale, dal Garigliano al Golfo di Policastro
A nord è chiusa da Lazio e Molise, a est da Puglia e Basilicata.
Le terre a ridosso del mare offrono uno spettacolo affascinante, arricchito
da tre autentici gioielli: Capri, Ischia e Procida; le ultime, due strascichi
del promontorio vulcanico dei Campi Flegrei, mentre Capri è una
sorta di coda staccata della penisola sorrentina, di natura calcarea come
i monti Picentini che dominano la piana di Salerno e più sotto gli
Alburni. Altra meraviglia affacciata sul Tirreno
e la Costiera Amalfitana, con i suoi precipizi sul mare, il profondo azzurro
delle acque, le case bianche e le chiese incastonate nella montagna che
si tuffa nel Golfo di Salerno. Tra le più famose grotte
della costa: l'Azzurra (anche a Palinuro, non solo a Capri), quella del
Golfo a Policastro, di Pertosa, dello Smeraldo. Regione mista di mare e
montagne, terre vulcaniche (il Vesuvio, con i suoi 1277 metri, è
immancabile nelle cartoline), calcaree, pietrose, come buona parte dell'Irpinia.
Ma anche fertili, produttive, con un'agricoltura in continuo sviluppo sulle
colline, nelle piane che ricevono le acque dei fiumi (Carigliano, Volturno,
Sele, Diano), nelle conche irpine; grande produzione di ortaggi, frutta,
legumi, agrumi e fiori. Quasi 300 mila aziende agricole, prevalentemente
nel triangolo Napoli-Caserta-Salerno. Non poche le industrie, come l'Alfa
di Pomigliano d'Arco, la Fiat di Casoria, la PireIli di Arco Felice; le
raffinerie; i cantieri navali e i complessi siderurgici. E ovviamente non
possono mancare pastifici, industrie conserviere e un piccolo artigianato
legato al turismo (mare e tesori d'arte da visitare), che è una
grande fonte di reddito per gli abitanti
Le feste. Falò e fuochi d'artificio
ad Aiello del Sabato (AV) il 20 gennaio, giorno di San Sebastiano; il lunedì
in albis, giorno di destrezza dei "fujenti", fedeli della Madonna
dell'Arco, ad Aversa (CE); il 7 settembre, Festa di Piedigrotta con Sagra
della canzone a Napoli; Festa di San Gennaro a maggio e a settembre.
Artigianato. Pastori del Settecento
napoletano rivestiti di stoffa e imbottiti di carta, entrambe d'epoca,
a Pollena Tracchia (NA); merletti al tombolo, cammei, coralli, conchiglie,
ceramiche,
legni intarsiati in ogni parte.
Proverbio. Chi
sputa ‘n cielo 'nfaccia le torna (Chi sputa in cielo in faccia gli ritorna).
Si mangia. Se gli spaghetti e la pizza
hanno conquistato il mondo, è certo merito della fantasia napoletana.
Il pomodoro è sempre presente ad arricchire piatti solo in apparenza
"poveri" ma gradevolissimi, una sorta di esperanto gastronomico
e lo diciamo tralasciando le recenti rivalutazioni della cosiddetta "dieta
mediterranea". Occorrono buoni pomodori e
buona pasta: in Campania ci sono entrambe le cose. Come c’è
una tradizione del ragù ("o rrau", cantato da Eduardo
e Marotta), che deve sobbollire per ore prima di unirsi ai maccheroni.
Nè possiamo dimenticare i vermicelli con le vongole "veraci".
E non mancano esempi di cucina patrizia: i più illustri sono il
sartu di riso e il timballo di maccheroni. Un ricordo dei tempi grami è
la pasta "ammiscata" (mischiata, composta dagli avanzi del negozio),
costituita da tipi diversi di pasta di piccolo formato, fondamentale nella
zuppa di fagioli. Oggi la situazione è cambiata e le preparazioni
di mischiata si trovano già pronte per la vendita. Anche
nel settore dei dolci (babà, sfogliatelle) Napoli si è espressa
al meglio. E il meglio è senza dubbio la pastiera, che
tradizionalmente si consumava solo nel periodo fra l'Epifania e Pasqua
(oggi pero c’è sempre). Su una base di pastafrolla si adagia un
composto dal sapore ricco di sfumature, a base di ricotta, chicchi di grano
bollito nel latte il giorno prima, strutto, pezzetti di frutta candita,
acqua di fiori d'arancio, cannella, bianchi e rossi d'uovo. Si cuoce con
una teglia di ferro, chiamata ruoto, e si gusta un paio di giorni dopo
la cottura, tenendola
incartata e lontano dal frigorifero.
Si beve. Campania, splendore del passato.
Quando il Falerno faceva gola alla Roma-bene, quando Augusto si faceva
mandare il vino da Sezze e Sante Lancerio elencava 53 vini delle cantine
vaticane di cui ben 14 campani. Questo primato si è via via appannato
fino a essere un riverbero dell'antica grandezza. Attualmente, la produzione
Doc non supera lo 0,5 per cento. Ma qui troviamo prodotti molto validi.
La cantina-faro per la regione (e per buona parte del sud) è quella
dei Mastroberardino ad Atripalda. Esiste ufficialmente dal 1878 ma si pensa
che la vocazione enologica della famiglia sia molto più antica:
nel 1580 esisteva infatti un mastro Berardino, taverniere a Napoli. Fiori
all'occhiello dell'azienda sono il Taurasi (da uve Aglianico), con grandi
doti di longevità, il Fiano e il Greco di Tufo. Coraggiosa
è stata anche la scelta di rivalutare il Lacrima Christi del Vesuvio,
un vino (e un nome, un'immagine) massacrato dalle misture adattate all'uso
turistico. Nel Beneventano, l'Aglianico, con Sangiovese e Piedirosso, dà
origine al Solopaca, altro rosso molto interessante. A Ischia è
da segnalare l'azienda D'Ambra, in particolare per i vini bianchi. La Campania
peraltro appare come una regione "chiusa" alle sperimentazioni,
agli impianti di nuovi vitigni. C’è infatti la tendenza a continuare
a lavorare sulle uve presenti da secoli: Aglianico, Pere Palummo, Greco,
Falanghina, Coda di Volpe, Biancolella, Forastera, Piedirosso, Sciascinoso,
Malvasia, Fiano. Piacevole e per molti l'Asprino (o Asprinio) di Aversa,
un bianco leggero e frizzante.